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Orfani ancora. Ci ritroviamo a camminare a braccia cadenti.
Tutto quello che facciamo, ogni azione che prende vita, ogni pensiero che chiede forma. Richiesta incondizionata e mai corrisposta.
Dove sono?
E perché ci sono finita, proprio nel mezzo?
un colore complementare inesistente.
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Si può sempre pensare di sapere tutto?
Salade de fruits au sirop.
Sarà quello schifo di mostarda, immagino.
Con foglie e biscottini al burro.
Forse il problema è sbagliare sempre i tempi. Ecco l’errore,
sempre in anticipo o appena un attimo dopo.
E in quel fuoritempo essere sempre fuoriluogo.
Chi ha sciolto il nodo? Chi ha chiesto aiuto?
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Nel verde totale -solo verde e niente altro- un uomo corre da solo.
Come me, che corro immobile su questo piccolo treno.
Avanzare, qualunque cosa accada. Bisogna avanzare.
Anche un pochino, un passo piccolo e incerto è sufficiente.
Uno spostamento impercettibile.
Un altro conto è se devi tornare indietro risalendo scale mobili di una stazione francese che ti conducono inevitabilmente verso il basso.
Lì ci vuole scatto di reni. E saper essere fuori sincrono.
Aggrapparsi con tutte le forze all’idea e lasciarsi scorrere all’indietro e con convinzione solo il passamano di gomma nera che ti vorrebbe trascinato a forza nel limbo della sala d’attesa. Mentre tu dovresti essere su, al binario giusto -indicato in modo davvero incomprensibile- e prendere quel treno, l’ultimo treno.
(Sfiorare, sempre e solo sfiorare la vita.
Accanto, girando intorno, mai mai mai attraverso.
Ho perso l’intersezione delle cose.)
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Se osserviamo un fiore di plastica ben fatto - e penso a Gonzalo mentre dico queste cose - penseremo sicuramente: bello! sembra vero.
E come ogni umana contraddizione vuole, osservando un fiore vero: bello! sembra finto.
Ecco, alla fine mi domando, cosa sarà mai questa bellezza?
Non saprei, ma una cosa è certa: questi fiori non hanno odore.
E il profumo dei fiori freschi nell’erba appena tagliata (il vento di maestrale che porta il mare), è tutta la bellezza del mondo che conosco.
Potremmo concludere così: che la bellezza, quella autentica, profuma.
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E’ tremendamente…
Bisognerebbe poter piangere. Bisognerebbe saper piangere, in certi casi.
Bisognerebbe poter vuotare la mente dai pensieri e conservare solo le immagini e qualche sogno.
Una fotografia mai scattata (immagine mai esistita): una volta ti ho portato al ristorante di legno bianco nel porto dell’abbazia.
Che giorno è oggi.
Mi sfuggono le date. Rimangono i volti.
E la sensazione di conoscere tutti su questo treno mentre fuori scorre piano il paesaggio zebrato.
Il bambino con lo zaino che camminava ad occhi chiusi immaginando il sole ora è seduto di fronte a me. Accanto, due tizi di cui non capisco la lingua puzzano di crauti e hanno un cane piccolo che avrà sbattuto il muso contro una porta, da giovane.
Anche la ragazza con il maglione verde e la valigia grande. Conosco già il suo modo elegante di sistemarsi gli occhiali di osso su per il naso. E so bene anche come mastica.
Forse questo essere senza pesi né ancore né appigli, in nessuna parte del mondo e per nessuna ragione al mondo più, crea legami con il mondo al di fuori del mondo, nei segni e nelle visioni?
Scrivo solo in movimento.
Mai da casa. Mai più.
Forse per ripercorrere quel moto perpetuo circolare che è servito solo a perpetrare la fine.
Prendo le distanze da tutto quello che l’assenza ha portato. Ecco. Potrei dire di essere più presente a me stessa, allontanandomene.
Il ragazzo con gli occhi grandi che profuma di una canzone dei radiohead - non ho ancora capito bene quale canzone, potrebbe essere Punchdrunk Lovesick - ora dorme.
Tra un attimo - " cause no one can touch me "- mi guarderà a lungo.
E io piangerò. Finalmente.
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