mercoledì 21 marzo 2012
lunedì 20 febbraio 2012
la terra dritta negli occhi
Torno qui come si torna alla riva del lago. Contro la forza del vento, mosso da un strano principio di conoscenza: di sapere che al mondo esista un altro da sé che possa sentire tutte le cose partecipando allo stesso modo della loro essenza.
Sempre controvento? Sempre gli occhi distesi sulle città deserte? Sempre rapita dai folli pensieri di comici disperati guerrieri?
Sarebbe bello tenersi sul filo ancora. Parlarsi, dirsi con disimpegno cosa tenga in tiro i nostri sforzi.
E' un invito a starsi di fianco nonostante la distanza.
Qui, scrivendo, tocca ormai di prendere i pezzi del passato.
Hai temuto che scrivessi “prendere a pezzi” il passato.
Potresti ascrivere la supponenza tua alla possibilità mia (mai realmente risolta) di una scrittura intercambiabile. E mi è balenata una idea. Proprio nell'istante in cui scrivo: di costruire un semplice marchingegno che mescoli parole e immagini secondo il caso, generando combinazioni imprevedibili. O alla forza nelle mani dell’osservatore. Ho l’idea. E so come deve essere fatto il marchingegno. Semplicissimo. Per il momento non dico altro.
Mille domande affiorate dal mare delle tue immagini, dal mondo iconografico di tua pertinenza (l’espressione fa pensare ad una scala o ad un pianerottolo) ma prima tra tutte: ti ricordo con i capelli corti corti di fronte al gelato. E adesso? quelli veri, non quelli della mia memoria, sono come nelle foto? Allora non tagliarli. Lasciali così, fungo. Vorrei vederli da fungo. Ti giuro che non riderei. E nemmeno sorriderei.
Mi limiterei a guardarli.
Non riderei pensando alle nuove speranze. E ai nuovi sogni che portano i tuoi nuovi capelli.
Questa in fondo è una lettera da sotto la pioggia. Piove e mi manca il soffitto.
Non so perché, non chiedermi, vorrei che questo tuo sia davvero un buon giorno. Forse è la successione di parole con cui hai segnato la sabbia (ché un foglio potrebbe pensarsi una spiaggia deserta, vuota di segni, da riempire).
Non so.
dalle stecche delle persiane filtrano fitti raggi, fendono la stanza, tagliano il reale. Fili d’oro. L’esordio meteorologico ha un scopo: quello di intendere se anche il tuo buongiorno sia simile al mio, o diverso. Se, cioè, una quota di nebbia in aggiunta, speciale, ulteriore rispetto al pulviscolo che -di norma- abita le nostre giornate, appaia addensata oltre il vetro e la finestra.
Questo è il tuo buongiorno? Carico di nebbia? O una luce più chiara abita la stanza?
Ti scrivo da una postazione improvvisata.
Sferzati i fogli, le mani lottano a tenere solidali al tavolino il cumulo di penne sopravvissute, superstiti, ai marosi dell'ultima ora. Potresti essermi seduta di fianco, la camera nella mano, a fissare nei prodigi della pellicola la danza sfrontata delle pagine, e chiedermi se vale la pena continuare ad immortalare per tutta la durata del giorno. Sì, ti direi, resta qui, permani fissa nella tua opera. Fammi compagnia, ti direi. Tu e la tua appendice siatemi compagne di questa intemperie, della barbarie arrogante che ci tiene fermi al tavolino bisunto d'un bar di provincia.
Dove sei adesso?
Sei l'ombra nella foto, la stessa che mi chiarisce in un baleno che non sarai mai il clown che desideri diventare ma essenza di donna, sottile, leggera.
Mi pare tu sia in partenza. Un tempo inesorabile ha dettato le battute a questi nostri giorni. Qualcosa mi spinge a credere che si sia entrambi sprovveduti, troppo semplici per star dietro alle cose della vita. Eppure dobbiamo vederci che sia qui o altrove.
Bergson stesso avrebbe fatto spallucce, dirigendo altrove gli occhi imbarazzati. Spero che nel pieno del tuo iperuranio fotografico riesca a ritagliare un spazio per me.
Ecco, era questo che volevo dirti.
Sei scomparsa col bottino. Volatilizzata, vapore nella nebbia.
E il freddo che si addensa alla porta. Con poca accortezza gli viene negato l'accesso nel luogo da cui ti leggo (in qualche modo) e ti scrivo. Ti penso persa nel fumo di una istantanea, a sciogliere i prodigi dell'occhio umano come un liquido colorato tra onde d'acqua.
Mi stringo nella maglia, cara compagna di queste ore del giorno. Trovo un angolo della casa che mi offra riparo.
Fogli alla mano, cerco storie.
Provo ad infilare su per le braccia i panni della persona discreta e cordiale. Spero mi stiano bene. Almeno un poco, quanto basti a darmi il tono dell'uomo elegante, ben educato, gentile. Mi guardo nell'animo a rintracciare i tratti di cui sento la mancanza, ma non trovo che una poltrona vuota. Di vimini credo.
Sul margine risicato del bracciolo siede un filo d'uomo (risicato, ridicolo). Restiamo così appaiati, a guardare l'orizzonte, dove uno stuolo di gabbiani grida al cielo che ieri tutto era più bello (l'ha preso da te).
Non è che è una cozzaglia di fiere ammansite da un cielo di fuoco.
Si sa: "il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose", enormità complessa, destituita della possibilità di seguire il corso che si desidera abbia.
Nonostante le parole, continuo ad incaponirmi, certo che un senso (almeno uno tra i tanti possibili) al tutto derivi proprio dalla corsa a piegare il mondo ai desideri, e che la resa -senza tener conto dei risultati- è la resa di tutto.
Gli occhi da incaponito servono a guardare meglio.
Come in un sogno vedo stelle ovunque, la notte s'allunga, più lunga la luna. Dovessi farmene richiesta, potrei tenertene un pezzo in serbo.
Il candore luminoso aiuta a sopportare la corsa del mondo.
E Albertina chi la fa? Tu o io?
Lo immagino, il nostro incontro, vicino al mare, in balia del vento. Così, per farti sentire a tuo agio.
In prossimità del mare sentiremo la vita sopra e noi sotto a guardarle le mutande.
Messo da parte il presente, e custodito il vento nello spazio striminzito di un forziere, lasciamo alla notte la libertà di far chiarezza su un tempo. Dico tempo per dire tempo del verbo. Mi costringi ad usare una funzione grammaticale in vece di una di pertinenza della fisica teorica.
E dire che non tutti credono che esista, il tempo.
Maledizione. Ti complichi la vita.
Dovremmo (uso il plurale) vivere il presente. So che lo sai.
Fai tutto, ma con calma. Sforzati almeno. e Chiedi venia al vento. Se gli racconti del tuo umore, del suo andare e venire, il vento saprà ascoltarti. E cambiare direzione. O spirare con più dolcezza.
Forse ti basta solo respirarlo a pieni polmoni.
Sì, non chiedergli. Respira e basta.
Torno ora dal viaggio breve lungo il viale che dalla soglia conduce alle prime luci del paese. Si procede a rilento, in fila indiana, l'uno all'altro stretti. Il percorso, finacheggiato da rovi, segue dritto fino al centro antico della città dimenticata. E dall'ombelico della civiltà muove fino a un immenso palazzo bianco, ritinteggiato per l'occasione del nostro incontro.
Alle soglie di una luna troppo grande per essere raccolta tutta dal pieno dei nostri occhi, vedo un uomo di profilo. Immobile, sotto la sua luce, tiene gli occhi sollevati da terra, destinati non si sa a chi né a cosa. Forse nel buio dell'infinito stellato cerca suo padre, forse l'amico desiderato. Forse entrambi o nessuno dei due.
Forse gli manca solo il coraggio di guardare la terra dritta negli occhi.
fotografie: nina viviana cangialosi
testi: giovanni campanale
martedì 14 febbraio 2012
non ha voce la neve
[...]
These mannequins lean tonight
In Munich, morgue between Paris and Rome,
Naked and bald in their furs,
Orange lollies on silver sticks,
Intolerable, without minds.
The snow drops its pieces of darkness,
Nobody’s about. In the hotels
Hands will be opening doors and setting
Down shoes for a polish of carbon
Into which broad toes will go tomorrow.
O the domesticity of these windows,
The baby lace, the green-leaved confectionery,
The thick Germans slumbering in their bottomless Stolz.
And the black phones on hooks
Glittering
Glittering and digesting
Voicelessness. The snow has no voice
Sylvia Plath - The Munich Mannequins
martedì 7 febbraio 2012
the sea is all around
" Sir...
A pity you're not here with me
You would understand everything
Look..
The sea is all around
We are destined to sail forever
To live forever "
Russian Ark - Alexander Sokurov
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